In quinta
liceo, qualche anno fa, mentre ci addentravamo nello studio della Seconda
Guerra Mondiale, dei compagni di classe mi suggerirono di vedere il film “il
bambino con il pigiama a righe”, conoscendo la mia predisposizione per il
genere drammatico che più drammatico solo i film tratti dai libri di Moccia.
Ho deciso di
vederlo, ma prima di leggere il libro da cui ha preso ispirazione.
POLLICE IN
GIÙ PER IL LIBRO, A MALINCUORE
John Boyne
racconta l’orrore della drammatica parentesi storica dei campi di
concentramento attraverso gli occhi di Bruno, un bambino di otto anni che vive
con la famiglia a Berlino prima di trasferirsi in una casa in campagna a
seguito della promozione ottenuta dal padre, ufficiale nazista. Bruno è
costretto a lasciare la scuola, gli amici, i nonni, la Berlino bene, la sua
realtà per essere catapultato in una realtà di cui non è consapevole. Crede,
infatti, che il padre sia proprietario di una grande fattoria. In ogni caso, il
bambino, trovandosi in solitudine, comincia a esplorare le zone circostanti,
nonostante le ammonizioni dei genitori e della sorella Gretel che si innamora
di un soldato al servizio del padre. Scopre così un campo di concentramento
dove incontra Shmuel, un coetaneo ebreo che si trova dalla parte sbagliata del
filo spinato. Nonostante l’evidente barriera, i due iniziano a conoscersi, a
raccontarsi la storia della propria vita, riescono persino a giocare e, di
tanto in tanto, Bruno procura anche del cibo al nuovo amico, in evidente stato
di malnutrizione: è lui il bambino con il pigiama a righe.
Il resto
della storia lo conoscete. Ciò che non mi ha convinto del libro è il modo in
cui è scritto: raccontare un episodio così drammatico dagli occhi di un ingenuo
bambino ha il grande vantaggio di sdrammatizzare tutto il contorno della
persecuzione nazista. Tuttavia, complice anche il fatto che il romanzo sia
molto breve, non sono riuscita a lasciarmi coinvolgere completamente dalle
vicende e, in alcuni punti, Bruno è talmente impertinente nelle sue
considerazioni che risulta antipatico. Sì, ha otto anni, va bene, ma diverse
volte stavo per abbandonare la lettura.
LACRIME E
RIFLESSIONI DURANTE E DOPO IL FILM
Da metà film
ho proseguito la visione con la vista annebbiata. Il tema forte, le immagini
dure, la freddezza di un padre responsabile di un campo di concentramento che
trascina i figli con sé, un’amicizia che nasce oltre le barriere. Pathos. È una
storia romanzata, d’accordo, ma sapere che tutto ciò è stato reale, le teste
rasate e la lotta per un tozzo di pane, la disperazione di un figlio che non
ritrova il padre tra altre migliaia di anime tutte uguali, tutte con lo stesso
destino, mi ha fatto stringere i denti per arrivare alla fine.
Mark Herman,
il regista, è riuscito a trasportare cinematograficamente tutte le sensazioni
di Bruno. La storia è portata ai limiti della realtà, ma porta l’attenzione su
temi forti di cui bisogna mantenere vivida la memoria.
IL
PERSONAGGIO MIGLIORE E QUELLO PEGGIORE
Quest’ultimo,
a mio avviso, risiede sicuramente nella figura del giovane Kotler, il tenente
che –passatemi l’espressione- se la fa con la figlia del suo capo, la maliziosa
Gretel. Spietato, il tenente picchia senza pietà chiunque gli disobbedisca,
ebrei ovviamente. Arrivista, alla fine viene allontanato dal campo di
concentramento per corruzione. Morirà nella battaglia di Berlino senza fama e
senza gloria.
Il
personaggio migliore non c’è e non chiedetemi perché.
GUARDATE IL
FILM E, SE PROPRIO DOVETE, LEGGETE IL LIBRO
Probabilmente
sarà l’unica volta in cui consiglio esclusivamente la visione del film; in
questi casi, tuttavia, ammetto che le sensazioni personali facciano da padrona,
essendo un tema caro a moltissimi registi, storici, scrittori, curiosi. Sia il
romanzo che il successivo film sono di recente produzione, rispettivamente 2006
e 2008, e sono evidentemente contaminati da tutta la letteratura e la
cinematografia precedente, nel bene e nel male.
Le altre puntate di "LibriVsFilm" le trovi su Storici&Salottiere!
Sher
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