giovedì 2 marzo 2017

La follia della guerra raccontata in “Valzer con Bashir”



Qualche sera fa ho visto un film. Ok, non esattamente un film, ma un film d’animazione, che non è un cartone animato. Ho visto un film di cui non avevo mai sentito parlare prima, me l’ha consigliato la mia coinquilina perché ha pensato che potesse piacermi: mai scelta fu più azzeccata. Mi sono commossa, indignata, ho provato dolore senza una reale spiegazione. O forse sì.

Ho visto un film d’animazione del 2008, diretto da Ari Folman -protagonista della storia: “Valzer con Bashir” (titolo originale Vals Im Bashir). Il titolo è riferito alla danza di un soldato che, durante un’imboscata, si butta in strada e spara incessantemente in aria con il suo mitra, “osservato” dal poster di Bashir Gemayel, politico libanese assassinato nel 1982.
Dovete assolutamente vederlo, e le ragioni sono mille e più.

In un bar israeliano, l’ex fante dell’esercito israeliano Ari Folman incontra l’ex commilitone Boaz Rein-Buskila. Quest’ultimo sta raccontando un suo sogno ricorrente: ventisei cani inferociti corrono all’impazzata tra le strade della città e si fermano ogni notte sotto la sua finestra. L’incubo è legato a un ricordo del passato, risalente alla guerra in Libano del 1982, e sono la testimonianza dei ventisei cani uccisi da Buskila durante un’operazione di pattugliamento notturno nei campi profughi palestinesi. Uno alla volta, fuori tutti.
Folman, con estremo stupore, realizza di non aver ricordi relativi alla guerra. Nessuno. Completamente rimossi in chissà quale angolo remoto della memoria. Eppure era lì, in prima linea come soldato, tra i carri armati, le imboscate e gli innumerevoli corpi senza vita di civili. Più tardi, Folman viene assalito da un flashback che lo riporta indietro negli anni: è notte, lui si trova in spiaggia con altri due commilitoni, stanno facendo un bagno mentre la città di Beirut, di fronte a loro, è illuminata soltanto dai razzi al fosforo durante quello che passerà alla storia come l’eccidio di Sabra e Shatila. Una scena che verrà riproposta più volte nel corso del film… Da pelle d’oca.
Parte, quindi, il tentativo di ricostruire la sua esperienza: Folman si rivolge a una psicologa e a un amico esperto in materia il quale suggerisce che probabilmente i ricordi legati all’eccidio sono frutto dell’immaginazione. La mente umana, a volte, è incontrollabile e viaggia parallelamente alla realtà. Contatta e incontra ex commilitoni per cercare di mettere insieme i tasselli di un puzzle che non vuole emergere. I ricordi spesso sono vaghi, la memoria ha cancellato gli episodi più drammatici, e ricostruire la cronologia e la realtà dei fatti sembra quasi impossibile, con visioni che riaffiorano prepotentemente senza censura, mostrandosi chiaramente in tutta la drammaticità della guerra.

Pian piano, riaffiora anche il vero motivo per cui quelle immagini erano state relegate lontano dagli occhi e dalla testa: il senso di colpa.
Le scene finali ripropongono, inaspettatamente, video di repertorio del massacro: donne disperate che non sanno dove andare, fumo, distruzione, morte. È la guerra.

Nonostante sia un film d’animazione, Valzer con Bashir rientra nel genere documentaristico per la raccolta di testimonianze di eventi legati alla guerra del Libano. I ricordi dei commilitoni sono riportati drammaticamente, c’è poca luca, le musiche (splendide, di Max Ritcher) fanno da sfondo dall’inizio alla fine passando dal rock duro a sinfonie classiche ed è difficile non farsi trasportare dalla crudezza dei conflitti. Inoltre, lo stile giornalistico dell’intervista aiuta a dare autorevolezza alle testimonianze.
In Libano è vietata la riproduzione del vincitore del Golden Globe 2009 come miglior film straniero. Comprensibile, essendo un capitolo drammatico della storia del paese. Tuttavia, per vie traverse alcuni blogger sono riusciti a far proiettare il film a Beirut nel 2009, alla presenza di un centinaio di persone, aprendo la strada per successive proiezioni.

Valzer con Bashir è da vedere perché in 90 minuti sono condensati gli avvenimenti dei conflitti della guerra del Libano dei primi anni Ottanta, culminando con l’eccidio del 1982. Per mostrare gli orrori di qualsiasi guerra, per sottolineare l’irrazionalità di addestrare centinaia di uomini e mandarli a morire senza adeguata preparazione, per condannare definitivamente qualsiasi evento bellico. Perché la guerra non è mai giusta, perché il fine non giustifica mai i mezzi, perché, ancora oggi, dobbiamo ricordarcelo.

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- Sher



venerdì 24 febbraio 2017

Intervista a Thomas Melis, autore di "A un passo dalla vita"



Qualche settimana fa ho recensito "A un passo dalla vita", romanzo di Thomas Melis. Ho avuto l'occasione di scambiare quattro chiacchiere con l'autore per approfondire alcuni temi della storia, toccando problemi legati al mondo in cui viviamo oggi, dalla crisi economica al degrado delle periferie delle città. Un romanzo impegnativo, non banale, ma attuale. Buona lettura!

“A un passo dalla vita” è il romanzo d’esordio: chi è Thomas Melis? Com’è nato questo libro?
Sono una persona che ha sempre amato i libri e la scrittura in generale. Ho affrontato un percorso di studi accademici focalizzato sulle discipline umanistiche e sulle scienze sociali. È stato quindi uno sbocco quasi naturale per me quello di lavorare a un romanzo. Ho avuto alla fine la fortuna di vederlo pubblicato.
Il libro è nato da una mia analisi della realtà. Dall’osservare la crisi si di valori, prima che economica, che ha devastato ciò che è stato l’Occidente dal Dopoguerra fino all’autunno del 2008, al crollo di Lehman Brothers. Una crisi che in Italia ha avuto un impatto più forte che altrove, combinandosi a una deriva morale iniziata durante gli anni ’80 ed esplosa sotto il berlusconismo. Il tema di fondo ha voluto essere quello di rappresentare, con un racconto, l’idea tutta italiana della conquista del successo e della ricchezza attraverso la furbizia, dell’importanza di essere furbi per raggiungere i propri scopi, nonostante l’immoralità di questo tipo di filosofia di vita e i danni che essa può generare alla collettività. Questo imperativo, fortissimo anche oggi, è stato poi inserito in una storia di narcotraffico che ben si prestava all’analisi di un’altra tipologia di problemi presente nelle nostre città e spesso nascosta sotto il tappeto. 

Il romanzo affronta molti e diversi temi sociali: droga, lontananza dalla terra d’origine, voglia di riscatto, drammi familiari e non solo. È un romanzo per tutti?
È un romanzo adatto a lettori adulti. Le tematiche non sono semplici e in certi casi possono creare qualche inquietudine, lo sconsiglio quindi ai lettori più giovani. Detto questo, credo che chiunque possa riconoscersi in alcuni argomenti trattati. Escludendo i più estremi, penso che molti abbiano vissuto l’esperienza dell’emigrazione o si siano trovati a figurare come una statistica sul precariato. Il romanzo tratta temi sociali, appunto, e ritengo che questi rispecchino, in piccolo, quanto la nostra attuale condizione collettiva stia rappresentando esteriormente.

La figura di Calisto può sembrare, almeno inizialmente, quella di un giovane arrivista senza scrupoli, pronto a tutto e abbagliato dal lusso e dagli eccessi; un esempio negativo. Nel corso della storia, gli eventi lo porteranno a prendere delle scelte e a far emergere altri aspetti della sua personalità. Come hai plasmato la figura del giovane universitario?
I personaggi sono stati creati con la precisa volontà di sfuggire alla tipica suddivisione netta tra bene e male, buono/cattivo. Quella delle serie televisive RAI, per capirci. Non ci sono eroi e non ci sono dannati nelle pagine di A un passo dalla vita, perché nella realtà questa separazione manichea non esiste. Calisto è quindi indubbiamente un esempio negativo, ma ha in sé degli aspetti più complessi che ne mostrano le caratteristiche opposte e gli restituiscono una dimensione meno oscura, sia in ragione delle scelte che (forse) compirà, sia considerato il contesto in cui questo personaggio si muove.

La maggior parte dei dialoghi, soprattutto tra Calisto, Secco e Tamagotchi, sono in dialetto e, probabilmente, non comprensibili per tutti. Come mai la scelta di marcare questo aspetto? E, domanda in qualche modo legata, perché la decisione della provenienza meridionale di diversi personaggi che cercano fortuna al nord?
La scelta di affrontare in questo modo i dialoghi è stata dettata da una serie di influenze letterarie che hanno plasmato il mio modo di intendere la narrazione. Se già in passato, per esempio con Pasolini, l’utilizzo di un registro vernacolare e gergale è stato un modo per avvicinare il lettore alla dimensione fisica e sociale della storia, negli ultimi anni un numero importante di autori italiani (ma non solo) di grandissima qualità – su tutti Giancarlo De Cataldo e il Collettivo Wu Ming – ha proseguito a produrre narrativa in questo senso. Lo stesso Roberto Saviano ha utilizzato questo accorgimento nella sua ultima opera. Per quanto mi riguarda, al di là delle influenze, è stata la volontà di infondere autenticità ai dialoghi a spingermi in quella direzione.
Venendo alla provenienza meridionale dei personaggi, rappresenta una precisa scelta legata alla realtà socioeconomica del sud Italia. Parliamoci chiaro, il Meridione è la zona più povera dell’Europa Occidentale, con indicatori sociali inferiori alla maggior parte dei Paesi dell’ex Cortina di Ferro. La disoccupazione media è al doppio del livello nazionale, e quella giovanile supera in molte aree il 50%. Se si escludono le zone metropolitane principali – ma succede anche in quelle – da anni nel Meridione è in atto una fuga della gioventù verso un futuro, non dico migliore ma almeno possibile, che ricorda quella degli anni 50 e 60 del secolo scorso. Il nord Italia è appunto una delle zone di destinazione di questo fenomeno.
 
Mi hanno piacevolmente sorpreso le digressioni su aspetti economici e sulla vita universitaria di Calisto, che rimane sempre in secondo piano. Le dettagliate argomentazioni del professor Vannucci e le riflessioni di Calisto sono frutto di precedenti studi dell’autore?
Come ho detto in precedenza il mio percorso accademico si è sviluppato nel settore delle discipline umanistiche e delle scienze sociali. Mi sono laureato all’Università di Firenze in Studi Storici, nella facoltà di Lettere e Filosofia, e ho proseguito all’Università di Bologna, seguendo un master in Relazioni Internazionali a Scienze Politiche. Quando ho iniziato a scrivere il romanzo avevo quindi un background accademico abbastanza solido da permettermi di avventurarmi in quel campo. Oltre gli studi, un interesse personale verso quel genere di tematica mi ha portato ad approfondire, e ha contribuito ad arricchire la mia preparazione al di là della successiva idea di utilizzarla in un romanzo come poi è avvenuto.

I luoghi e gli eventi descritti nel romanzo abbracciano un ampio spettro della realtà: dai locali scintillanti del Platinum e del Nabucco, alla periferia controllata dagli albanesi, ai rave in capannoni abbandonati e affollati da ragazzi di ogni età, alle campagne desolate e tattiche. In un’unica città coesistono condizioni completamente differenti. È così che vedi la società attuale?
Beh, credo sia una realtà oggettiva che prescinda il mio modo di mostrare le cose. La condizione liquida della nostra società si riflette anche nelle sue forme geografiche e nell’organizzazione che autonomamente assumono gli spazi fisici.  Le nostre città hanno un’anima architettonica medievale/rinascimentale che assume consistenza nella grandiosità dei monumenti e degli edifici. Questi spazi originari hanno a loro volta accolto le attività socioeconomiche più avanzate ed eleganti - locali, negozi, uffici, banche – trasformando le periferie, almeno quelle più popolari, in quartieri dormitorio in cui la bellezza antica risulta totalmente sacrificata a una razionalizzazione deumanizzante degli spazi.  A tale processo corrisponde una ghettizzazione, per classi, delle persone che abitano queste aree. Un fenomeno che prima riguardava i meridionali e ora si è decisamente focalizzato sugli stranieri. In questi luoghi la nostra società  nasconde il disagio, o gran parte di esso, trasformandolo in degrado: ciò che non può avere cittadinanza nei parchi giochi per turisti e per cittadini facoltosi che sono i centri storici. È qui che il racket della prostituzione si mostra quando scende il sole. È qui che le piazze di spaccio assumono organizzazioni aziendali. Allo stesso tempo è qui che la protesta contro questo modo di intendere la città trova i suoi luoghi: i centri sociali, gli spazi occupati, le manifestazioni esterne al circuito commerciale/capitalistico che regge l’economia legale e quella grigia.
Perché la scelta di Firenze che, però, non viene mai nominata chiaramente? È abbastanza inusuale come scenario per un susseguirsi di vicende così dinamiche e controverse.

Firenze è stata scelta proprio perché rappresenta lo scenario perfetto per mettere in luce la condizione e le contraddizioni di cui ho parlato. La “bomboniera”, come sarcasticamente alcuni fiorentini chiamano i 505 ettari di quello che è uno dei centri storici più belli del mondo, è sempre tirata a lucido, anche se in alcune aree il disagio che ribolle sotto la superficie finisce per mostrarsi. In periferia invece, alle Piagge, a Rifredi, alla Gavinana, lo spettacolo non è lo stesso, e quello che in centro viene nascosto sotto il tappeto emerge in tutta la sua negatività. Firenze inoltre attira un flusso imponente di  immigrazione, dal meridione e dall’estero, e anche da questo punto di vista si prestava ai miei obiettivi narrativi.
La città non viene mai nominata perché A un passo dalla vita non è un romanzo su Firenze. È un romanzo ambientato a Firenze, ma i fatti narrati nelle sue pagine avrebbero potuto accadere in qualsiasi altra città del centro nord. Dico centro nord perché al sud a queste problematiche se ne sarebbero aggiunte altre ancora più complesse.

Leggendo l’avvincente romanzo, è inevitabile ricostruire a mente ogni evento e creare il proprio film, grazie alle descrizioni dettagliate e al susseguirsi delle azioni e allo stile incisivo ed estremamente scorrevole. Mi sento di dire che ne uscirebbe una bella trasposizione cinematografica. Hai pensato a questa possibilità? C’è, nel romanzo, qualche riferimento a film o serie tv?
Ho fantasticato su come avrebbe potuto essere realizzata una trasposizione cinematografica/seriale del romanzo ma non ho mai preso in considerazione questa eventualità, anche perché non possiedo i contatti necessari a renderla possibile. Sarebbe qualcosa di fantastico se mai accadesse e parlando da questo punto di vista mi viene facile rispondere alla domanda successiva: il libro è pieno di riferimenti a serie TV, film, musica e anche libri classici del genere. Tra le righe c’è proprio un meta-testo che invia segnali al lettore attento. Il Commissario Cattani, per esempio, è quello de La Piovra, storica serie tv su Cosa Nostra prodotta negli anni ‘80. Calisto fa riferimento al film Slevin, nella parte finale della storia, quando immagina una mossa Kansas City per volgere a suo vantaggio le circostanze. Oppure i Patriarca, sono una famiglia criminale che appare in un racconto di Giancarlo De Cataldo. Il numero 187, più volte menzionato, è quello che i rapper statunitensi utilizzano per indicare l’omicidio, mutuando il codice in uso nelle radio della polizia. Holli è un riferimento alla Holly di Colazione da Tiffany. Ce ne sarebbero degli altri ma non posso dire di più perché finirei per svelare troppo della trama.

Nuovi romanzi nel cassetto e progetti futuri?
Attualmente sto lavorando a un romanzo ambientato in Sardegna, la mia bellissima terra natale. Non so quando potrà uscire ma posso anticipare che rientrerà nel genere noir/crime, così come A un passo dalla vita e il suo spin off Platino Blindato. Sarà una storia di malavita, cruda e malinconica, che guarderà al presente, alla società contemporanea dell’Isola, a una serie di problematiche che non sembrano volerla abbandonare, attraverso la lente di un antico codice sociale che per secoli ha regolato l’istituto della vendetta. Non sarà semplice ma mi auguro che possa venir fuori un buon lavoro. Poi chissà, magari in futuro vedrà la luce anche un seguito di  A un passo dalla vita… ma per quello è ancora troppo presto.

Grazie per aver risposto alle domande e in bocca al lupo!
Crepi!  Grazie a voi di avermi voluto ospitare e di avermi fatto queste domande approfondite e interessanti. Vi lascio con un saluto ai lettori del blog.

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Sher

venerdì 17 febbraio 2017

Israfel di E. A. Poe


Scrivere articoli per un blog non è facile. Ci sono tanti ostacoli, e il primo tra tutti è sé stessi.
Sarò sincera, da qualche mese in bozze ci sono tre articoli che penso non pubblicherò mai. 
Il motivo? Non credo che abbiano rilevanza per qualcuno. O almeno, non hanno rilevanza per me. 
I temi sono: musica e libri, aggiornamento sui social ed Escape Room. Forse l'ultimo argomento può essere anche un minimo interessante, ma no, non sono convinta. 

Dopo questo sproloquio, ecco cosa sono venuta a fare su questo blog.

A condividere una poesia. 

In questa mattinata nebbiosa, in cui i corvi si librano nel grigio e l'umido s'infila sotto i vestiti, ho voglia di leggere e condividere una poesia di Edgar Allan Poe
Perché sì. E questo è un motivo più che sufficiente per pubblicare queste parole in croce. 
Perché sì. 


ISRAFEL

In Cielo dimora uno spirito “le cui corde del cuore sono un liuto”. Nessuno canta in modo così selvaggio e dolce come l’angelo Israfel, e gli astri vorticanti (così dicono le leggende) interrompendo i loro inni, muti, ascoltano l’incanto della sua voce.  
Tremolando lassù nel suo alto culmine, la luna innamorata arrossisce d’amore, mentre, per ascoltare, il rosso lampo s’arresta in Cielo (con anche le rapide Pleiadi, che sono sette).  
E proclamano (il coro delle stelle e le altre entità in ascolto) che il fuoco di Israfel si espande da quella lira presso la quale seduto canta, dai fili vivi e frementi di quelle corde inusitate.  
Calcò quell'angelo i sereni cieli, dove spontanei sorgono i pensieri profondi, dove non è mai Amore un dio capriccioso, dove i teneri occhi delle Urì di tutto il fulgore s'imbevono che noi adoriamo in una stella. 
Per questo, tu certo non erri, o Israfel, che disprezzi un canto che non abbia un'anima; a te tocca la gloria del lauro, a te, il miglior bardo e il più saggio! 
Ai tuoi ardenti ritmi accorda il cielo le sue estasi - pena, allegrezza, odio, amore, al fervore del tuo liuto: oh, ben possono star mute le stelle! 
Il cielo è tuo; ed è il nostro, invece, un mondo dolce-amaro; i fiori, quaggiù, non sono che fiori, e l'ombra della tua beata sorte è il nostro più splendente meriggio. 
Potessi io dimorare dove Israfel ha dimorato, e fosse egli qui dov'io sono, più non potrebbe, certo, così cantare, selvaggio e dolce, una sua terrena melodia: mentre un più alto canto che non sia questo, dalla mia lira si leverebbe in cielo.

sabato 28 gennaio 2017

“A un passo dalla vita”, il romanzo di Thomas Melis che vi sorprenderà



Una misteriosa Firenze si traveste di nero e diventa complice delle vicende che infittiscono le sue strade ricche di storia e cultura. Una città che non viene mai apertamente nominata, ma che fa da sfondo alla vita di Calisto, giovane studente universitario del Sud che sa decisamente il fatto suo. Intraprendente, determinato e arrivista, Calisto vuole tutto e subito: ama il lusso, passa le serate tra il Nabucco e il Platinum –i locali più in voga della città, spende migliaia di euro per curare l’abbigliamento, è attento ai dettagli, è amante delle belle donne. Sa cosa vuole e sa come ottenerlo. Proveniente da una modesta famiglia di tenaci lavoratori, con alle spalle un’adolescenza violenta e irascibile, Calisto vuole riscattarsi da una vita vissuta nella mediocrità, passata a guardare chi aveva più di lui senza poter raggiungere quello stile di vita. Come riesce nel suo intento? Grazie alla sua attività extra-universitaria e a un giro di persone poco raccomandabili, ma apparentemente rispettabili.
Droga, sesso, lussi sfrenati, vendette e rancori, conoscenze ambigue e il passato che, spesso, torna prepotentemente a invadere un presente che sembra perfetto.
Schiavi del materialismo e degli eccessi, Calisto e i suoi fedeli compari, Secco e Tamagotchi, vivono una realtà scintillante che, però, più volte li metterà di fronte a delle scelte importanti che cambieranno il corso degli eventi, fino a far riconsiderare addirittura il profondo legame di amicizia e fratellanza che li lega.

“Ai piedi delle mura medievali, negli esclusivissimi privè del Nabucco, era adagiata la prole, più o meno giovane, della buona società cittadina. In molti casi si trattava di materiale umano di pessima qualità, avviluppato in creazioni sartoriali italiane di ottima qualità. I maschi, palestrati e affetti da pesanti abbronzature artificiali, esibivano strette camicie aperte fino al quarto bottone, ridendo con sguaiata e ostentata sicurezza, di fronte a giovani e bellissime ragazze equipaggiate con borsa Louis Vuitton di ordinanza. […]Davanti a me vedevo il prodotto sociale di vent’anni di populismo degenere di stampo arcoriano. Una raffigurazione antropologica, da trattato, dei danni causati dalla cultura massificata del bunga bunga che il sistema televisivo italiano aveva propagato ininterrottamente per due decenni, identificando come target predi-letto la popolazione dei futuri adulti.  (Cap.2, pagine 24-25)


“A un passo dalla vita” è un romanzo che sa come catturare l’attenzione del lettore e le oltre trecento pagine scorrono senza rendersene conto. Il merito non è solamente della scrittura fluida, decisa e chiara dell’autore, che comunque riveste un aspetto assolutamente fondamentale del testo, ma ci sono molte altre componenti che riescono a renderlo completo, sotto ogni punto di vista. In particolare, difficile non farsi catturare dalle riflessioni sull’economia che scaturiscono dalle lezioni universitarie che il protagonista frequenta: chiari riferimenti alla complessità del mondo in cui viviamo, alla crisi del mercato mondiale che inevitabilmente si riflette sui valori dell’uomo. Per cosa vale la pena lottare? Come comprendere i cambiamenti epocali prodotti nel sistema economico mondiale?

“Ebbene, le sembra ideale un mercato nel quale la gran parte delle produzioni principali è controllata monopolisticamente da un gruppo ristretto di multinazionali? Le sembra ideale un mercato nel quale la speculazione finanziaria è totalmente scollegata dalla produzione reale? E ancora, le sembra ideale un mercato nel quale i lavoratori vivono, a seconda del paese, in condizioni di protezione totalmente differenti che finiscono per ripercuotersi pesantemente sui costi di produzione? Chiaramente, questo non è un mercato ideale: è l’esatto contrario.”  (Cap.4, pagina 36)


Ciò che stupisce del romanzo è l’accuratezza di tutti i dettagli, dalle spiegazioni universitarie che indagano temi di estrema attualità quali la crisi economica italiana e globale all’attenzione rivolta in ogni passaggio dell’attività di spaccio a cui si dedicano i personaggi. I dialoghi, resi più accattivanti dalla scelta del dialetto, sono reali e fluidi, ma mai banali. Si percepisce la cura in ogni parola, in ogni azione, in ogni descrizione.
“A un passo dalla vita”, però, non è un romanzo di facile lettura; non è un libro “da spiaggia”, ma ha bisogno del suo tempo per essere compreso al meglio, ha bisogno della pazienza del lettore che inevitabilmente rimane coinvolto nelle vicende di Calisto, non un ragazzo qualunque, ma che nasconde delle fragilità che difficilmente emergono.
Una lettura che merita assolutamente di essere vissuta perché “A un passo dalla vita” riesce a indagare a fondo diverse tematiche sociali che viviamo ogni giorno: l’importanza delle proprie origini e l’ambizione di una vita migliore; un losco giro di droga, ma anche violenza e tradimento; c’è spazio per l’amore passionale e anche sincero, ma anche per il dramma familiare. È un romanzo completo ma non superficiale, ricco ma non disordinato.
Il merito dell’autore al suo romanzo d’esordio è sicuramente quello di aver reso una storia così complicata e intrigante alla portata di tutti; emerge chiaramente un’ottima preparazione culturale in diversi campi, abbinata a una notevole capacità di scrittura limpida, mai banale, e anche passionale.
Un romanzo da leggere, ma, soprattutto, una storia che apre interessanti spunti di riflessione, come ad esempio la domanda che mi sono posta alla fine “siamo davvero il frutto della società consumistica, schiava dei modelli che ci propina come fine ultimo della felicità? Siamo arrivati davvero al punto di essere pronti a sacrificare tutto per raggiungere i propri desideri materiali? C’è possibilità di tornare indietro quando si crede di aver toccato il fondo?”
Io una risposta me la sono data, voi cosa aspettate?

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Non perdete, nelle prossime settimane, l’intervista all’autore Thomas Melis!

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Sher