lunedì 30 novembre 2015

Cos'è la barba per un uomo? Risponde Giulia Pivetta autrice di Barber Couture

Barber Couture è un libro che racconta la moda della barba in modo storico-sociale. Noi di Storici&Salottiere, chiedendoci cos'è una barba per un uomo, siamo andati a intervistare Giulia Pivetta, l'autrice.

Come è nata l'idea di Barber Couture


I fenomeni sociali legati allo stile sono stati il mio campo d'indagine sin dall'università, e grazie a miei precedenti lavori sulle tribù di stile degli anni Sessanta, sono stata contattata per curare Barber Couture. Da parte della casa editrice c'era l'interesse a sviluppare un progetto sul mondo del barbiere, io ho proposto la mia visione dell'argomento, un taglio narrativo storico sociale, e a loro è piaciuta.

Il tuo lavoro si basa su una visione dello stile come specchio dei tempi. In questo senso, cosa dicono barbe e capelli sull'evoluzione del maschio occidentale dell'ultimo secolo?

Lo stile è sempre lo specchio dei tempi, e la moda – lo stile - , in quanto fenomeno sociale, non è solo parte integrante del mondo in cui viviamo, ma è uno dei segnalatori più forti attraverso cui leggere i cambiamenti che avvengono in esso. Nel secolo passato,  gli uomini , a differenza delle donne, sono rimasti molto legati alla tradizione. Consuetudini,  regole e certezze, rotte solo dalle subculture da strada e dai loro stili autentici – nati come espressioni di un sentire comune -  che hanno fornito nuovi input al mondo maschile. La moda, intesa come tendenze stagionali imposte e cambiamenti repentini, è sempre stata prerogativa femminile. Non è a caso che, uno dei fenomeno di maggiore durata e estensione, come quello del Barbiere, affondi le sue radici nella tradizione.

Il libro dà una spiegazione al grande revival dell'uomo barbuto degli anni Duemiladieci? Secondo te, quale versione diventerà iconica di questi tempi: l'hipster col baffo austroungarico o la declinazione più selvaggia, che abbina barba incolta e chignon arruffato?

Quando si parla di uomini, la barba e i capelli sono un simbolo di virilità chiaro. La spiegazione per il grande ritorno al luogo mitico del barbiere, spazio in cui la donna da sempre è esclusa,  è che gli uomini, soprattutto quelle generazioni cresciute dagli anni Settanta in poi, sono alla disperata ricerca di un'idea solida e concreta di mascolinità.
In entrambe le versioni, sia incolta -  associata ad uno stile folk e camicie di flanella a scacchi sul modello di chi sa tener testa ad una natura selvaggia - che la variante estremamente curata - che sfida la forza di gravità, status symbol di benessere e potere economico -  raccontano un attaccamento al feticcio, all'oggetto mitizzato e da cui la vita è stata rimossa, e di cui rimane solo la rappresentazione. Un approccio sterilizzato, alla Wes Anderson, tipico dei giorni nostri, che contraddistingue il modo contemporaneo di concepire qualsiasi manifestazione estetica.

Colgo l'occasione per farti una domanda che mi frulla spesso per la testa. Secondo te, cosa c'è dietro questo ritorno all'estetica degli anni Cinquanta? 

Gli anni Cinquanta sono uno dei trend di maggiore portata, sia in termini temporali che di pervasività nella società. È uno di quei loop da cui non riusciamo a uscire, come lo stile militare, o come quello ancora più longevo e radicato della giovinezza, e che ci accompagnerà ancora per molto tempo. Sono stati senza dubbio un periodo di prosperità, benessere, positività e grande speranza. La conquista dello spazio, il design, il consumismo, sembravano promettere che il futuro sarebbe stato il migliore dei mondi possibili.
Oggi abbiamo quello stesso desiderio di lasciarci un periodo negativo alle spalle. È  dunque a quell'idea di avvenire che noi torniamo, ne abbiamo nostalgia, e lo manifestiamo riprendendo l'estetica che ha caratterizzato quegli anni. Proporzioni, colori, forme che ci riportano ad un passato ideale, o meglio, che abbiamo idealizzato.



Parlando di cose più tecniche, come avete lavorato tu e Matteo Guarnaccia? Da dove siete partiti con le vostre ricerche e dove siete poi andati a caccia di materiale?

Io e Matteo abbiamo una tecnica ormai collaudata che abbiamo avuto modo di affinare nel corso degli anni, lavorando assieme ad altri progetti scritti/illustrati o di ricerca e illustrazione, sempre in ambito moda, e personalità ad essa legate. Per esempio abbiamo recentemente pubblicato Bob Dylan Play Book, un libro gioco che ripercorre le tappe stilistiche più significative della carriera del cantante.
Partiamo sempre da un'idea comune su cui ci confrontiamo e ci allineiamo. Anche se abbiamo esperienze di vita molto diverse, condividiamo una visione delle cose molto simile, che senza dubbio è ciò che continua a permetterci di lavorare a "4 mani".
La prima fase di ricerca è individuale, poi, una volta che ho deciso cosa inserire nel testo,  partiamo con la realizzazione delle illustrazioni. Sottopongo a Matteo diversi input a cui far riferimento, frutto di peregrinazioni tra libri o filmati, che lui a sua a volta integra. Internet è uno strumento fondamentale oggi, se gestito con testa, sia per recuperare materiale che per individuarlo presso fonti esterne.
Ciò che ci da sempre maggiore soddisfazione però sono le riviste d'epoca, che spesso si trovano nelle biblioteche o ai mercatini dell'usato. Il grande vantaggio delle illustrazioni rispetto alla fotografia è quello di poter sintetizzare in un'unica tavola, tutto ciò che di più rilevante c'è di un determinato argomento.

Qual è stata la scoperta più interessante che hai fatto lavorando a Barber Couture?

Ciò che oggi  ai più giovani sfugge, è cosa significava la sala da barba in passato per gli uomini. Nella cultura occidentale, ma non solo, e soprattutto per noi italiani, che abbiamo una tradizione di barbieri conosciuta in tutto il mondo, la sala da barba aveva una funzione sociale, era un luogo esclusivo, in cui gli uomini si riunivano e si sentivano protetti. Il barbiere era una figura centrale della comunità. Una persona di riferimento in grado di dispensare consigli ed indicazioni, colui che poteva maneggiare delle lame, considerato anche una sorta di medico, o di sciamano.
Provenendo da un mondo in cui i saloni per parrucchieri sono unisex, e i centri estetici femminili hanno aperto le porte anche agli uomini, immaginarmi un luogo di apartheid di genere mi dà il senso di quanto ancora ancora oggi sia importante che la distinzione tra i sessi rimanga definita, perché contraddistinti da specificità precise.

Se dovessi pensare ad un lavoro analogo orientato sullo stile femminile, ti occuperesti sempre di parrucco o sceglieresti altri dettagli di moda per descrivere la trasformazione della donna nel XX secolo?

La domanda cade a proposito, sto preparando la versione femminile di Barber, si chiamerà Ladies Haircults e uscirà nella primavera dell'anno prossimo per lo stesso editore, 24Ore Cultura. La squadra dunque è la stessa,  i disegni saranno sempre di Matteo e anche in questo caso, capelli saranno appaiati all'abbigliamento e ad elementi del mondo culturale delle protagoniste. Se per gli  uomini i capelli sono un simbolo di virilità, per le donne i capelli sono uno dei luogo in cui si è combattuta l'emancipazione – stilistica e non solo - femminile. Questo sarà la prospettiva attraverso cui verranno raccontati gli anni tra il 1940 e il 1980, con un antefatto che include andrà ad includere anche il primo trentennio del Novecento. Dal piccolo tirabaci fino alle teste voluminose del power suit!

Grazie dell'intervista!
- Chiara Franchi

lunedì 23 novembre 2015

Nitrologia: in un mondo parallelo



      Ciao Nitrus, parlaci di te!

Ciao ragazzi, innanzitutto è un piacere per me! Il mio nome è Manuel, ho 25 anni e vivo a Roma. Beh, su di me non ho molto da dire, sono un ragazzo come tanti, cresciuto con i ragazzi del quartiere, ho due fratelli più grandi di me e una passione fottuta per la musica. Già da piccolo giravo sempre con le cuffie nelle orecchie: quando ero in viaggio con i miei, sull’autobus per andare a scuola, durante l’orario scolastico per sviare le lezioni (ride, ndr)… Ovunque, a volte uscivo solamente per fare due passi con le cuffie ficcate nelle orecchie per proiettarmi mentalmente altrove, con la mia musica, lontano dai problemi e dal traffico della città. Ciò però non vuol dire che fossi il tipico ragazzo isolato, anzi, ero sempre in giro con gli amici, come si faceva una volta, e si trascorrevano le giornate in strada a giocare a pallone o a metterci in qualche casino; avevamo poco ma eravamo molto felici. Darei un braccio per rivivere quei tempi che ricordo con malinconia, oggi invece i tempi sono totalmente cambiati, tutto sembra essere diventato così sintetico e freddo, la gente vive sui social rinchiusa in casa fottuta dalle proprie paure condividendo le proprie emozioni tramite uno schermo; si è perso il concetto dello stare insieme, di condividere le giornate per quelle che erano, o magari semplicemente si cresce e si ha un’altra percezione della vita. Così crescendo mi sono rifugiato nella musica, è stato praticamente il mio bastone che mi ha accompagnato alla vecchiaia!

 "Nitrologia"

È appena uscito il tuo nuovo album. Il brano Nitrus el Gringo - Nitrologia già ci dice molto e ci introduce al tuo mondo, ma raccontaci come è nata l’idea. 
 
Ti è mai capitato che ti chiedessero “vorrei proprio sapere che ti passa per la testa”? A me in continuazione! Colpa della mia testa pazza probabilmente, quello è stato uno dei spunti principali. Nitrologia è sicuramente uno dei brani, insieme a il Tempo è oro, a cui sono più affezionato. L’idea è stata pura fantasia, mescolata alla mia follia che ormai mi accompagna da tempo (ride, ndr). Ho voluto creare un mondo parallelo che proiettasse l’ascoltatore nella mia testa, così da poter vedere la mia concezione del mondo, i miei pensieri, i miei demoni più intimi e, appunto, potesse vivere per 2 minuti e 27 secondi nel mio cranio, come faccio intendere nella citazione “spasmi di paura delirio e follia ma non è las vegas siamo nella testa mia, quest’è Nitrologia”.  
Il titolo nasce dalla fusione del mio soprannome Nitrus & la parola “Logia”, logica: così è nato il nome di Nitrologia, praticamente la logica di Nitrus, un viaggio nel mio universo parallelo. Da qui anche il nome dell’album; ho incentrato l’intero disco su questo tema, dando un ordine preciso alla tracklist. Ascoltando l’album infatti c’è un’introduzione in questo mondo parallelo e allo stesso tempo un viaggio dentro di esso, passando da argomenti più astratti, fino alla mia visione del mondo di oggi. Praticamente ho cercato di creare una sorta di Trip, inserendo messaggi nelle tracce sulla società in cui viviamo, sull’omologazione, passando al controllo sociale di cui siamo schiavi senza rendercene conto. Chi riuscirà a cogliere il messaggio lasciato nei testi sarà un fan genuino, poi c’è chi si ferma alla superficialità del ritornello orecchiabile o al fatto che sono pezzi non commerciali, ma quello è un parere che neanche mi interessa; per quel genere di musica ci sono tonnellate di artisti mossi da etichette discografiche che fanno il loro bel lavoro smuovendo la giostra del soldo. Come cito in Carta straccia:
 “lo faccio per me perché nessuno è più in grado d’ascoltare, meglio carta senza prezzo che un pezzo commerciale”.

 
Tornando al pezzo di Nitrologia sono completamente soddisfatto del lavoro che abbiamo tirato fuori: il tappeto musicale è di SoulCypher;  è molto spettrale e rende bene l’idea, invece Dj Muf ha completato l’opera inserendo dei cut sul ritornello e completando così il pezzo.
Per rendere ancor meglio l’idea sulla traccia sto lavorando anche al video: l’idea è quella di riprodurre materialmente quel mondo così che oltre a narrarlo nel pezzo si ha anche un impatto visivo di quello che racconto, il tutto sarà rappresentato anche in fumetti disegnati da Mr.Wolf di cui già ho visto alcuni Sketch e posso dire che ha centrato appieno l’idea.


     Il brano Equilibrio Precario recita: “la senti questa musica? È musica di rivolta”. Cos’è per te la musica?
 
Per me la musica è tutto e appunto per questo deve trasmettere emozioni. A prescindere dal genere che fai, per come la vedo io, puoi fare musica classica o punk rock, non conta il genere musicale che porti avanti, ma quello che trasmetti alla gente. Devi trasmettere emozioni, nel migliore dei casi sentimenti veri a chi ascolta, sennò la musica muore. 

      Quanto è difficile fare musica, oggi? Perché?
 
Dipende cosa si intende per fare musica, per certi versi è anche fin troppo accessibile; con l’arrivo di youtube e dei social network sono esplosi gli artisti fai da te, tutti i ragazzi della mia età vogliono fare musica rap, mentre quando andavo a scuola io ero preso di mira dagli altri ragazzi perché vestivo due misure più grandi della mia, col cappellino e le cuffie, mentre oggi sembra essere la moda del momento. La cosa realmente difficile è relazionarsi con il pubblico, far ascoltare i propri pezzi. Con youtube e facebook puoi divulgarli nella rete, è vero, ma c’è parecchia diffidenza e se sei da solo a spingere il tuo prodotto devi fare tipo venditore porta a porta sperando che dall’altro lato chi riceve il prodotto gli dia un ascolto e ti prenda in considerazione facendo nascere così una connessione con altri artisti, ma essendo numerosi questo accade raramente e anche il possibile ragazzo di talento viene messo nel mucchio. Riuscire a farsi largo non è affatto facile.  
 
      L’album è “contaminato” da dialoghi. Perché questa scelta?

Volevo che il disco fosse suddiviso in capitoli come un libro, dove i vari skit fanno da intermezzo nell’album spezzando così la concentrazione di chi lo ascolta per proiettarlo con un vero e proprio discorso su un altro argomento. La prima parte del disco infatti comincia con la Follia, le prime tracce dell’album sono viaggi interpersonali, molto astratti, la seconda parte invece ti mette di fronte al fatto che non siamo possessori di nulla, anzi diventiamo schiavi di ciò che possediamo, schiavi delle nostre vite multimediali, schiavi del tempo, delle nostre passioni e dei nostri demoni interiori, mentre l’ultimo skit suona come una sveglia per chi sta ascoltando, tirando fuori l’ascoltatore da tutti i concetti precedenti e concentrando la rabbia verso la società trattando argomenti come il controllo sociale, un sistema piramidale che mangia sulle spalle della gente, le guerre per interessi fino ad un’ipotetica rivolta del popolo ormai stanco.

Si nota, all’ascolto, una vena polemica nei confronti della società attuale. Un po’ troppo pessimista?

Secondo me no, anzi, ho puntato ad enfatizzare proprio questa cosa per generare un senso di fastidio all’ascoltatore, come quasi a volergli far aprire gli occhi e fargli capire che sta vivendo la vita che per lui hanno scelto. Ci hanno ridotti a prodotti di mercato, siamo le fabbriche di noi stessi, prodotti della nostra stessa vita, siamo troppo impegnati a fare la fila alla nuova uscita dell’Iphone e a seguire le partite di calcio che ci dimentichiamo di vivere la nostra vita; ci gettano fumo negli occhi dicendoci cosa mangiare, cosa comprare, con cosa ammalarci e come curarci, praticamente spargono il male per venderne la cura. Nessuno ha più un ideale nella vita, un sogno nel cassetto, siamo troppo impegnati a sopravvivere in questa vita spengendo così le speranze della gente e rendendoci facili da controllare. Nei testi riverso questo odio per cercare di mandare messaggi tramite la musica, comunicare qualcosa. Questo è il mio modo di essere.
 
      Come e quando hai iniziato a fare musica?

Cominciai ad appassionarmi alla musica Rap in particolare all’età di 15 anni; ricordo ancora mio fratello che rientra a casa e mi dice “oh ascolta un po’ ‘sta canzone, vedi se ti piace” e mette su una canzone di Frank Siciliano “Notte blu”. Quello è stato il mio battesimo con il rap italiano, da lì è stato amore a prima vista. Così iniziai a cercare sempre più artisti che supportassero il movimento “Genuino” in Italia e scoprii artisti come Colle Der Fomento, Lou X, Kaos one, Noyz Narcos, Suarez e così via; da lì in poi è stato un viaggio ininterrotto verso questa cultura, con gli amici ci siamo avvicinati al mondo del writing per un breve tempo, poi a quello della break dance per poi infognarmi definitivamente dove mi sento più a mio agio, nella musica rap, potendo esprimere i miei pensieri su un foglio bianco, stile seduta psichiatrica! Quando sei lì, ci sei solo tu, un foglio bianco e la penna. Ti si spalanca un mondo di fronte, sai che potrai esprimere qualsiasi concetto dal più astratto che ti passa per la testa al più tangibile in cui chiunque ci si possa ritrovare, io cerco sempre di mescolare entrambe le cose così da creare appunto un viaggio mentale durante l’ascolto delle tracce esprimendo quello che ho dentro. Cerco di lanciare un messaggio nella mia musica. Ho cominciato nel 2010, spronato dal mio stesso amico con cui avevamo iniziato insieme il percorso nella break dance e successivamente formando il gruppo BloodTies: è lui che mi ha spinto a cominciare, ha fatto scattare la scintilla che ha innescato tutto il meccanismo, gli devo molto per questo. Il tutto era cominciato quasi per gioco, butti giù le prime rime, le registri e pensi sia finita lì, invece diventa come una droga, non riesci più a farne a meno, così sono venuti fuori i primi progetti, i primi live, le prime battle di freestyle e oggi il mio disco ufficiale.


      Progetti passati e progetti futuri?

I progetti passati sono quelli che hanno un affetto particolare in quanto sono stati i primi lavori veri e propri. Ricordo che registravamo ovunque capitasse, nei box degli amici, in vecchi garage, in camera nostra, intanto in cucina i tuoi si tiravano i piatti (scherzo!), anche se fra una registrazione e l’altra c’era di tutto. Poi nel tempo abbiamo deciso di iniziare a fare qualcosa di più concreto per presentare un progetto più sano, così ci siamo iniziati ad avvicinare ai primi studi di registrazione e abbiamo cominciato con i primi live. Quando era possibile, partecipavamo come collettivo, altre volte partecipavo da solo, volevo immergermi totalmente in quest’ambiente, così mi iniziai ad iscrivere alle battle di freestyle, contest di tracce, e andare a suonare in qualsiasi live capitasse; ero spinto dalla passione e non importava se ero da solo o con qualcuno che venisse a supportarmi, l’obiettivo era quello di colpire con la musica, entrando sul palco come anonimo e scendendo magari ricevendo i complimenti da chi era ad ascoltare, nessuno magari a fine serata ricordava il mio nome, ma lo sforzo era ripagato con il guadagno del rispetto della gente. Così facendo ho iniziato ad allargare il mio giro di amicizie conoscendo sempre più gente e ricevendo inviti a suonare alle jam, più di una volta sono partito da solo da Roma per andare a suonare in Abruzzo, mi buttavo sul Cotral con le cuffie, solo io e la musica per tutto il viaggio, per andare a suonare a 240 km di distanza di fronte a un pubblico che non sapeva minimamente chi io fossi, il tutto a spese mie, ma non importava, quello che mi importava era avere un palco dove potermi esibire.
Progetti futuri ce ne saranno sicuramente, per ora non ho nulla in cantiere, il disco è uscito solo da pochi giorni e l’obiettivo è quello di portarlo live in più zone possibili d’Italia e spingerlo a dovere, spingere il messaggio contenuto in esso. Non escludo comunque un sequel.

Dove possiamo seguirti/ascoltarti?
 
Per rimanere aggiornati sui prossimi progetti date live e altro potete seguirmi sulla pagina facebook, appunto per rimanere in tema di social (ride, ndr),  ma, soprattutto, partecipate alle serate che organizzano e supportate questa cultura!
A questo punto penso vi sarete anche rotti le scatole di sentirmi parlare! Se invece siete arrivati fino a questo punto dell’intervista vuol dire che forse ho lasciato un messaggio o qualcosa a chiunque la stia leggendo.  Bella ragazzi, grazie per lo spazio sul vostro sito e per la chiacchierata, è stato un piacere! Alla prossima!

Qui sono elencati i link per lo streaming e l’acquisto dell’album Nitrologia:
Per ascoltarlo gratis su YOUTUBE
Per ascoltarlo gratis su SPOTIFY 
Per acquistarlo da GOOGLE PLAY
Per acquistarlo da I-TUNES
Per acquistare la copia fisica BIGCARTEL 

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Sher 
 

sabato 21 novembre 2015

LIBRO vs FILM: Io sono leggenda

Io sono Leggenda. Quali sono le differenze tra film con Will Smith e libro di Richard Matheson?
Facciamo prima a dire cos'hanno in comune: titolo, esseri umanoidi che possono essere considerati vampiri o zombie, il personaggio sostanzialmente solo. E basta. Cambia perfino il senso generale della storia. Mi ricordo che, guardando il finale del film, la mia mente malata aveva pensato: "Ma non ha tantissimo senso, eh". Ho capito solo dopo aver letto il libro perché. Va da sé che ciò che sto per scrivere è uno SPOILER grande quanto una casa…

Sia film che libro trattano la storia di uomo, l'unico sopravvissuto della sua razza a causa di un morbo. Nel film, il morbo è scatenato dalla "cura contro il cancro" mentre nel libro da un non precisato batterio. I risultati di questo morbo sono, nel film, zombie mostruosi; nel libro, dei veri e propri vampiri che temono la luce del sole e l'aglio. Il povero Robert Neville è immune, sia nel libro che nel film. Ed è completamente solo, tranne per un cane che nel libro è un randagio diffidente mentre nel film è il cane domestico della famiglia Neville. Nel film, Robert cerca una cura, nel libro prova a sopravvivere e basta.

Ritorniamo agli umanoidi, che è la differenza che può sembrare a prima vista più sciocca, ma in realtà è quella più mastodontica. Nel film sono regressi ad uno stato quasi animalesco mentre nel libro sono intelligenti come gli esseri umani (in realtà, ci sarebbe anche un finale alternativo del film che fa presagire una futura evoluzione degli zombie proprio come nella sua controparte cartacea). Nel film, quindi, il loro obiettivo è solamente quello di mangiare e dormire, ovvero le necessità base di ogni animale, anche se sono in grado di provare affetto o almeno una sorta di attaccamento, per i loro simili. Nel libro, invece, sono evoluti, hanno proprietà di linguaggio e sono abbastanza intelligenti da creare una struttura societaria simile a quella pre-apocalisse, con il dichiarato intento di gettare le fondamenta per una nuova esistenza non più basata sul genere umano ma sui vampiri, che sono a tutti gli effetti la nuova razza dominante del pianeta.

Afferrata la differenza? Bene, andiamo al finale, dove si comprende meglio questa differenza.
Nel film, Robert Neville è finalmente riuscito a trovare una cura e la dà a un'altra sopravvissuta, la quale si reca verso una delle colonie umane ancora esistenti e qui consegna la cura contro il morbo. Robert Neville diventa così una leggenda per gli umani. La frase "Io sono leggenda" non viene pronunciata dal protagonista, e forse non l'ha neanche mai pensata, quindi il titolo del film mi sembrava un tantino fuori luogo.

Nel libro, Neville viene ingannato e infine catturato dai vampiri. Gli aspetta un'esecuzione pubblica perché tutti hanno paura di lui convinti che, essendo l'unico umano, possa essere una minaccia per la loro sopravvivenza. Il protagonista si rende così conto che le parti si sono invertite, che ormai è lui il "vampiro" mentre i suoi nemici sono diventati "la norma": è lui la leggenda, che verrà alimentata dopo la sua morte. Il titolo, "Io sono leggenda", è così spiegato ed ha un senso non solo logico ma, non saprei come altro definirlo, figo.

Cosa si è perso nella trasposizione cinematografica, quindi? Il film è diventato un prodotto bello e sicuramente fruibile, ma non indimenticabile. Il finale è commovente, ma non mitico. Il romanzo mette in luce la possibilità dell'uomo di essere scalzato dalla cima della catena evolutiva, fa ragionare sulla nostra esistenza passata, presente e futura più del film dove l'umanità, sebbene in pericolo, ha di nuovo la speranza di tornare alla ribalta.

In definitiva sono due prodotti simili, ma allo stesso tempo così diversi che non me la sento di suggerirne uno a scapito dell'altro: se volete intrattenervi, il film andrà benissimo. Se volete pensare, il libro è ciò che fa per voi.

- Ruel

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giovedì 19 novembre 2015

Intervista a Mariachiara Cabrini, autrice del romanzo Lie4Me



1.Parlaci un po' di te. Cosa fai nella vita?

Salve a tutti, mi chiamo Mariachiara Cabrini e sono nata a Mantova nel 1982. Sono una lettrice accanita fin da piccolissima (mi definisco una lettrice compulsiva) e, durante gli anni del liceo, ho iniziato anche a dedicarmi alla scrittura, cercando di dare sfogo alla mia fin troppo fervida fantasia. Sono laureata in Storia dell’arte e lavoro in un ente pubblico allo sportello anagrafe, ma nel tempo libero porto avanti il mio hobby della scrittura e ormai da nove anni gestisco un blog dedicato alle mie letture: “L’arte dello scrivere… forse” con il nick name di Weirde. Leggo in lingua originale in inglese da diversi anni e questo mi ha permesso, e mi permette tutt'ora, di leggere serie inedite o rimaste incomplete in Italia. Mi piace molto il genere urban fantasy, che ho scoperto grazie al telefilm Buffy, e tra le autrici che per prime mi hanno fatto innamorare di questo genere, oltre ai pilastri Anne Rice e Laurell K. Hamilton, devo citare assolutamente Christine Feehan e Keri Arthur. A onor del vero però leggo un po’ tutti i generi anche se quelli che preferisco sono il fantasy, l’urban fantasy, il giallo storico, il romance storico, il paranormal, lo steampunk e lo sci-fi. Il mio mito è Jane Austen, mentre tra le scrittrici contemporanee i miei miti sono Mary Balogh e Lois McMaster Bujold. Adoro le trame anticonvenzionali, i vampiri e i romanzi con eroine non bellissime, ma sorprendentemente in gamba. Odio gli zombie, ho provato un sacco di volte a leggere libri con zombie, ma proprio non mi piacciono, anche se la trama mi attira, il fattore bleah degli zombie annulla tutto.

Anche Storici&Salottiere approva Anne Rice e le sue saghe!


2.Sei anche una blogger. Ci parli un po' del tuo blog?

L’arte dello scrivere… forse è nato per puro caso, giusto per poter parlare con una mia amica sulla piattaforma Splinder (all’epoca facebook non esisteva ancora, o se esisteva in Italia non si era ancora diffuso). Però mi sembrava uno spreco avere creato uno spazio online e non usarlo, così ho deciso di riempirlo parlando dei libri che leggevo. Non credevo qualcuno l’avrebbe mai letto, anche perché in Italia a leggere siamo così pochi! Invece la gente lo leggeva e mi poneva domande o chiedeva consigli su che libri leggere. Leggendo in lingua inglese potevo anche parlare di libri inediti in Italia e questo creava ancora più curiosità. Poi con altri blogger amanti dell’urban fantasy  abbiamo organizzato una petizione per portare in Italia autori di quel genere, e la cosa, be' ecco, all’epoca tieni conto che era una novità, eravamo credo nel 2008/2009, e c’era il fenomeno Twilight ad aiutarci. E grazie a questo finalmente iniziarono a venire tradotte e pubblicate anche in Italia Christine Feehan e Keri Arthur, per citare dei nomi noti.
E fu così che l’urban fantasy ebbe la sua epoca d’oro anche da noi, che purtroppo però sembra finita ormai, anche se io gli resto fedele. E continuo a portare avanti il mio blog anche se nel frattempo Splinder ha cessato di esistere e mi son dovuta trasferire su Tumblr. Non ho mai ingrandito il blog per scelta personale, né ho mai coinvolto altre persone nella sua gestione, è nato come qualcosa di mio, di personale appunto e anche se questo mi impedisce di poter fare più post o tenerlo più aggiornato per questione di mancanza di tempo, mi piace così com’è nel suo piccolo. Se vorrete passare a trovarmi, mi farete solo piacere.

3.Quando hai capito che la scrittura era la tua strada?

Ho sempre amato leggere a quanto ricordo, mio padre mi rinfaccia ancora che da piccola ed ancora incapace di leggere da sola pretendevo mi leggessero e rileggessero le favole ancora e ancora senza mai stancarmi. Poi alle elementari cominciai a scrivere delle storie mie, conservo ancora sei o sette quaderni pieni di storie, non ho ancora avuto il coraggio di riprenderli in mano, però. All'inizio erano tipo dei copioni che mettevo in scena per le mie barbie, poi dei copioni per i personaggi dei cartoni, insomma mi piaceva l'idea di comandare ai personaggi e dire loro quello che dovevano fare.
Poi l'adolescenza mi ha zittita e solo alle superiori ho ripreso a scrivere e a 17 anni è nata la prima bozza embrionale di Imprinting love, che però allora si intitolava Quello che vuoi. Poi dopo aver aperto il mio blog nove anni fa ho trovato il coraggio di iniziare a scrivere sul serio. Per me scrivere è principalmente uno sfogo. Ho in testa tante storie, nate da sogni o semplicemente da me stessa e dalla mia vita (lavorare a uno sportello pubblico ti mette a contatto con tante persone e tante realtà) e se non scrivessi, la testa mi scoppierebbe. Diventare scrittrice non è stata una scelta consapevole, ma un bisogno. Pubblicare ciò che scrivevo invece è stato ben più complicato. Il coraggio mi è arrivato solo dopo anni, spinta da un concorso Mondadori e solo grazie al mio blog, che mi aveva già fatto provare l’ebrezza di veder giudicato dagli altri ciò che scrivevo. Cosa non sempre piacevole…eppure ne vale la pena. Pubblicare il tuo primo libro ti da una sensazione unica
Ricordo ancora che mi sentivo come se mi fossi tolta un macigno dalle spalle eppure al tempo stesso il terrore di esporlo agli altri mi attanagliava.....mi sentivo come una madre che accompagna il figlio al primo giorno di scuola felice di vederlo cresciuto, ma spaventata dal distacco e da ciò che può succedere al suo bambino cosa gli altri potranno fargli e dirgli.... e la tempo stesso ero felice



4.Cosa o chi ti ha ispirato per Lie4Me?

L’idea per la sua trama risale al 2012 quando, navigando su internet, scoprii per caso un concorso piuttosto anomalo. Si trattava dell'iniziativa ‘Scrivi un film per Geppi Cucciari’  promossa da Bottega Finzioni - la scuola di narrazione fondata a Bologna da Carlo Lucarelli. L’obiettivo era quello di trovare un soggetto per un nuovo film con Geppi Cucciari.
La partecipazione all'iniziativa era gratuita e le parole dell'attrice, riportate su un giornale online, mi convinsero a tentare a partecipare anche se non sapevo nulla di sceneggiatura. Dopotutto volevano solo descrivessi in poche righe l'idea per un film, e se c'è una cosa che non mi manca è la fantasia, perciò perché non tentare?
“La scuola di scrittura di Carlo Lucarelli mi ha proposto una cosa bellissima – affermava Geppi Cucciari - e cioè di provare a far scrivere ai futuri allievi dei soggetti di film per me. Devo dire che l’idea di collaborare con dei giovani, in un momento in cui mancano più le occasioni che i talenti, è una cosa che mi fa molto piacere. Per cui se avete un’idea, un soggetto di un film che pensate possa andare bene per me, voi mandatelo. Vorrei una storia che faccia ridere ma non soltanto. Vorrei una storia in cui ci si riconosca ma non troppo perché sognare rimane una cosa importante quando si va al cinema. Se poi avesse un retrogusto amaro sarebbe davvero la sceneggiatura ideale perché nella vita niente ha soltanto un colore. ”
Riflettendo sulle parole di Geppi, sui suoi ruoli comici e su ciò che io avrei voluto vedere al cinema, mi venne la stramba idea di una storia la cui protagonista mentiva, non per natura, divertimento od opportunismo, ma seriamente per lavoro, e questo la portava ad avere una serie di avventure ridicole, ma al tempo stesso significative per una sua crescita durante il film. Sarebbe stata una storia con una morale, nonostante la protagonista all'inizio avrebbe avuto una moralità atipica, e decisi di intitolare il mio soggetto: L'aggiustatrice di vite.
Diciamo che l’ispirazione mi è venuta un poco dal Dr. House e dal suo mantra: tutti mentono, un po’ dalla mia esperienza di sportellista che mi ha fatto scoprire che effettivamente le bugie sono all’ordine del giorno, per abitudine spesso più che per bisogno, e poi dai libri di Stephanie Plum della Evanovich.
Inutile dire che non vinsi il concorso, ma l'idea mi ronzava troppo in testa per non svilupparla. La protagonista era lì che scalpitava pronta a vivere le sue avventure e non accettava di essere frenata, così in poco più di un mese buttai giù tutta la sua storia. Il primo libro almeno, poiché in realtà avevo già in mente una trilogia a lei dedicata e le bozze per i due seguiti sono già sul mio computer.

è una verità base della condizione umana che tutti mentono.
L'unica variabile è su cosa


5.Qual è la cosa più difficile nello scrivere un romanzo?

Credo che sia soggettivo per ogni scrittore. Nel mio caso scriverlo, letteralmente. Le idee mi vengono senza problemi, ho già in mente dialoghi, scene, come se avessi un film intero in testa, il grosso problema è trovare il tempo per metterle per iscritto. Tra lavoro e vita privata ritagliarsi del tempo, e ne occorre tanto per scrivere qualcosa di decente, non è semplice. A volte è la voglia stessa che manca. Si torna a casa stanchi, magari con gli occhi che già dolorano a forza di fissare il computer sul luogo di lavoro, e l’ultima cosa che vorresti è tornare davanti allo schermo per scrivere. Trovi mille scuse, ti distrai, fai delle lunghe pause, leggi, invece di scrivere, e intanto il tuo romanzo non va vanti. Io poi che sono pigra per natura, mi devo proprio sforzare a volte. Ma se voglio scrivere devo farlo, o tutte le idee strane che mi frullano in testa non vedranno mai la luce.

6.Progetti futuri?

Per il motivo di cui sopra, ho sempre in ballo mille progetti futuri e pochi progetti conclusi! Ho un file che contiene idee  e prime bozze per almeno dieci libri, ma al momento però sto cercando di concentrarmi sui due seguiti di Lie4me che ho già iniziato a scrivere.

7.Un consiglio per gli aspiranti scrittori?

Oddio, anche io lo sono perciò direi: anche io sono sulla vostra stessa barca perciò vi capisco. Non arrendetevi e anche se vi diranno che non avete talento o non andate bene per loro continuate a scrivere, poiché non si scrive per orgoglio o superbia o per mangiare, ma per raccontare, perciò finché avrete storie da raccontare voi scrivete. Detto questo, la prima regola per scrivere un libro decente è ricontrollare e rileggere fino alla nausea, farlo leggere ad altri, lasciare passare del tempo e rileggere ancora e ancora. E poi leggere tanto e prendere ispirazione dai libri letti, per scrivere sempre meglio.

Grazie!
Lynn

martedì 17 novembre 2015

Arabo e islamico. È la stessa cosa?

La Mecca
Per non rischiare di esporci a futili discussioni, non si entrerà nel merito di ciò che accade in questi giorni. Ma affinché non vinca l’ignoranza, e per fornire qualche utile strumento al dialogo, tornerà utile qualche basilare definizione. Basterà una buona lettura degli studi di Pier Giovanni Donini sul mondo arabo-islamico, evitando in tal modo definizioni inopportune.


Non tutti gli arabi sono islamici, né tutti gli islamici sono arabi. Infatti possiamo affermare che ci sono numerosi arabi che si professano cristiani, e viceversa molti europei che hanno aderito all’Islam.
Chi sono gli arabi? Storicamente erano solo i nativi della penisola araba, quella che oggi comprende Arabia Saudita Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen. La loro espansione nel VII secolo portò sia alla diffusione della fede islamica che una mescolanza con popolazioni per lo più non arabe, quindi, parlare acriticamente di «arabi» significa disconoscere la realtà costituita dalle numerose minoranze non arabe restie a rinunciare alla propria specificità linguistica, religiosa, culturale. Vanno distinti gli «arabi» dagli «arabizzati», coloro che hanno finito con l’accettare la cultura araba.


L’aggettivo  «musulmano», dall’arabo muslim, denota coloro i quali abbiano fatto la professione di fede davanti a dei testimoni, riconoscendosi membri della comunità del Profeta. Allah significa "Dio" in arabo, lo stesso di ebrei e cristiani, mentre  «Islam» alla lettera è tradotto come  «sottomissione, abbandono, rassegnazione». Connotata in questo senso, è più di una religione: l’Islam è un insieme di norme che guidano l’agire umano.


Chiunque uccida un uomo, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. (Sura 5.32)


Il libro sacro è il Corano, rivelato dall’Arcangelo Gabriele a Maometto, è diviso in 114 Sure, le quali uniformano il modo di agire e pensare musulmano. Insieme alla Sunna, testo sacro che vale un codice di comportamento, costituisce la Sharia, ovvero la legge islamica.


Più di un miliardo, i musulmani sono sparsi per il mondo, dove distingueremo un nucleo compatto (stati arabi dell’Asia e dell’Africa), dalle regioni confinanti (Pakistan, Afghanistan, paesi non arabi dell’Africa) e dalle aree periferiche (sud-est asiatico, Bangladesh, Somalia, Balcani, Europa e America). Grazie a conquiste e occupazioni militari, assimilazione ideologico-culturale, opere di commercianti e missionari, tratte di schiavi, espulsioni e scambi di popolazioni, colonialismo, la fede musulmana si è diffusa da una parte all’altra del globo.


Come nel Cristianesimo, e come nell’Ebraismo, all’interno della religione islamica troviamo divisioni di varia natura: sunniti e sciiti, Islam arabo, Islam turco e Islam iraniano, moderati e integralisti, fondamentalisti… estremisti. Le conseguenze, che accomunano le tre fedi, sono sempre le stesse. Attualità e storia insegnano.


Questo un brevissimo ABC per chiunque voglia intavolare una qualsiasi discussione su quanto sta accadendo e quanto ci circonda, una prima lezione introduttiva.


Fonti:
- G.P. DONINI, Il mondo arabo islamico. Chi e quanti sono i musulmani nel mondo, Roma, Edizioni Lavoro, 2002


Marco Scarfiglieri

domenica 15 novembre 2015

Editoriale n°14: Odio fomenta odio, violenza genera violenza


Non voglio unirmi al coro di idioti pro o contro immigrazione, o soffermarmi sulle ragioni di quel che è successo (anche se, a tal proposito, potrebbe risultare molto utile la visione di QUESTO VIDEO). Vorrei, invece, parlare di ciò che ci aspetta.


Cosa ci aspetta, allora?
Inutile negarlo, guerre e odio tra "diversi" esistevano ben prima delle religioni; a conti fatti sono venute contemporaneamente alle guerre e all'odio tra "simili". Le guerre, quindi, non sono MAI esclusivamente portate avanti per ragioni di fede e di odio, ma sono sempre e comunque solo UNO dei motivi oppure una SCUSA. Per esempio, in questo articolo si specifica come l'odio degli ariani verso gli ebrei, pur largamente sentito dalla maggioranza della popolazione tedesca, fosse una maschera dietro cui nascondere il desiderio di controllare territori e/o risorse.


Odio fomenta odio. Violenza genera violenza.
Ed è esattamente quello che sta succedendo.


Politici, cialtroni e semplici coglioni stanno facendo a gara per esprimere la loro sui fatti parigini, su come l'immigrazione vada controllata, su come le frontiere vadano chiuse e su come questo e quell'altro debbano pagarla. Parole che possono tramutarsi in fatti. Odio che genera altro odio. Violenza che genera altra violenza.


Cosa si può fare a riguardo?
Ignorare chi inneggia alla violenza (era accettabile negli anni '30, non oggi che ne sappiamo fin troppo di più.... o così dovrebbe essere) e cercare la collaborazione degli istituti religiosi che ripudiano l'odio. Tenere sotto controllo quei personaggi che possono essere collusi col fondamentalismo islamico (da non confondere con l'Islam) e isolarli prima che possano far danni.
Ma, soprattutto, cercare di fare tutto il possibile per calmierare la situazione in Medio Oriente. Lì c'è un'enorme bomba pronta ad esplodere.


Nel frattempo la redazione di Storici&Salottiere non può fare altro che stringersi attorno alle famiglie delle vittime. Un pensiero lo dedichiamo anche a chi semplicemente lavorava o camminava nei luoghi degli attentati e ha passato attimi d'inferno.


- Ruel

martedì 10 novembre 2015

Un viaggio tra i mercatini di Natale: Via San Gregorio Armeno

C'era una volta, ai tempi degli antichi greci, una stradina tanto carina. Questa stradina tanto carina, che è stata anche un importante collegamento della Neapolis romana, oggi si chiama Via San Gregorio Armeno.Non vi dice niente?C'è una chiesa costruita sulle fondamenta del tempio di Cerere, la casa di San Gennaro… nulla?E se dico presepi?

I maestri dell'arte presepiale napoletana si concentrano tutti in questa viuzza. Se considerate che il presepe napoletano è uno dei più famosi al mondo e se tenete conto che la strada è molto piccola, immaginate cosa può succedere durante il periodo natalizio. Esatto, avventurarsi a Via San Gregorio Armeno (o Via dei Presepi) dopo le 17 di qualsiasi giorno tra fine novembre e dicembre è come entrare nell'Inferno Dantesco. Lasciate ogni speranza voi ch'entrate (la foto che vedete sotto è stata scattata una mattina di fine novembre, perciò quella che potrebbe sembrare “folla” in realtà è “nulla”).

Ora facciamo i seri e cerchiamo di capire perché i più bravi artigiani del presepe si sono concentrati tutti in questa stradina tanto carina.

La presenza del già citato tempio di Cerere avrebbe favorito l'artigianato locale, che si era specializzato in statuette di terracotta per offerte ex-voto. Quest'attività sarebbe rimasta intatta anche dopo che il tempio era stato sostituito dalla chiesa, e così si spiegherebbe perché ci siano testimonianze di simil-presepi già dai primi anni dell'XI secolo, nonostante sia oggi accertato che l'arte presepiale vera e propria si sia sviluppata dal XVI secolo in poi.

La tradizione è rimasta e oggi S. Gregorio Armeno raggruppa i più grandi artigiani del settore. Questi lavorano tutto l'anno per costruire gli scenari e le statuine. Per attirare i turisti e per divertirsi, i maestri presepiali, accanto alle tradizionali statue della Madonna e di Gesù Bambino, intagliano  personaggi famosi attuali come politici, papi, calciatori (soprattutto del Napoli) e tutte le novità dell'anno.

Se non ci siete mai stati, siete delle cattive persone. È vero che molto probabilmente riceverete qualche gomitata e vi pesteranno un piede, ma il presepe è il presepe, e va visto. Siete ancora lì? Andate, su su!

- Ruel

domenica 8 novembre 2015

Editoriale n°13: La Corrida, tradizione o mattanza?


La storia della corrida si perde nella notte dei tempi, tra tauromachia, caccia e gare con tori e bovini di Greci, Etruschi e Romani.
Nell’800 d.C. si registrano le prime gare a Segovia, in Spagna. Da qui, una lunghissima tradizione, protratta fino a oggi e, forse, conclusa.


Come funziona una corrida, lo sapete tutti: tori provenienti da allevamenti specializzati destinati ad essere pubblicamente uccisi da toreri che quasi danzano nell’arena, in uno spettacolo atroce che attira, però, migliaia di turisti curiosi e popolazione locale fortemente legata alla tradizione.
Prima dell’ingresso del torero, dei picadores a cavallo entrano nell’arena e colpiscono il toro con delle picche conficcate sulla schiena, in questo modo:


“Nel colpire il toro, il picador utilizza la vara de picar, una picca costituita da un manico in legno lungo circa 180 cm e una punta in acciaio forgiata a piramide a tre lati, fornita alla base di un disco anch'esso metallico che ha la funzione di impedire la penetrazione del manico nelle carni dell'animale. La legge spagnola 4 aprile 1991 n. 10 o Ley Nacional Taurina, che regola le corride, prevede che il toro venga colpito con tale arma alla base del morrillo, cioè nel muscolo del collo, almeno due volte. Alcuni tori continuano tuttavia a caricare cavallo e cavaliere dopo aver ricevuto anche cinque o sei puyazos (cioè colpi di vara de picar); in questi casi, in genere il picador rovescia la vara e colpisce il toro con il manico di quest'ultima (regaton).” (Fonte: Wikipedia)


Poi inizia lo show e, quindi, il torero, tra determinati movimenti del corpo per attirare il toro, maneggia un drappo di colore rosa intenso da un lato e giallo dall’altro creando così un clima di suspense tra gli spettatori che tra “ooh”, “oh my god” e applausi si godono il drammatico spettacolo. Alla fine, il colpo di grazia è consegnato prima dal torero che, approfittando della debolezza del toro ferito, gli conficca una spada tra le costole fino a raggiungere il cuore. Se dovesse fallire nei molteplici tentativi, interverrà uno dei peones a finirlo con un pugnale.  


Nonostante l’opinione pubblica e, in particolare, il popolo spagnolo siano divisi tra chi è pro e chi è contro la corrida, un importante segnale è giunto lo scorso Ottobre dai sindaci di Madrid e Valencia che hanno sospeso i finanziamenti pubblici alla corrida, con lo scopo, in futuro, di abolirla del tutto, sull’esempio della Catalogna che ha abolito gli spettacoli nel 2011. Una svolta animalista che prende piede dai nuovi sindaci delle due città legati al movimento di sinistra Podemos, di Pablo Iglesias.


Allo stesso modo, il Parlamento Europeo, con 438 voti favorevoli e 199 contrari, ha cancellato dal bilancio dell’UE i sussidi destinati agli allevatori di tori da combattimento.
Tutta la Spagna si sta pian piano mobilitando per porre fine alla mattanza dei tori; infatti, molte città spagnole, tra le quali Palma de Mallorca, Hueca e Aldaia, hanno chiesto il referendum per l’abolizione, altre città, come Gandia e Saragoza, hanno bandito le corse con l’accusa di “maltrattamento sugli animali”.
Una decisione importante che è arrivata fin oltreoceano, in Messico e Colombia, in cui la tradizione della corrida è forte e ben radicata tra la popolazione.



Negli ultimi anni, la corrida ha continuato ad attirare la curiosità dei turisti, ma non più della popolazione spagnola, il che ha contribuito sicuramente a una presa di posizione che va contro questa forma di espressione culturale tradizionale.

La domanda, alla fine, è: fino a che punto è lecito preservare la tradizione anche se crudele, inutile e contraria al buon costume?

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Sher